E’ ormai trascorso quasi un anno dal terribile terremoto che il 6 aprile 2009 ha segnato con furia devastante il destino di un’intera città e di oltre 300 vite umane.
Bisogna riconoscere che coloro a cui è stata demandata la gestione dell’emergenza hanno lavorato con costanza e dedizione alla causa aquilana: certo, il “governo del fare” ha fatto, ma siamo sicuri che abbia proprio fatto bene? Siamo sicuri che L’Aquila si trovi in piena fase di ricostruzione? Siamo sicuri che i cittadini aquilani siano tornati ad essere felici e contenti come prima?
Io sono un’aquilana. E proprio contenta non sono.
Nel mese di dicembre ho partecipato all’incontro “Le altre verità”, organizzato da miei concittadini presso la Sala dei Notari di Perugia e – al netto dell’intensità con cui alcune opinioni politiche sono state espresse – mi sento di condividere il contenuto dell’intero incontro, in particolar modo in relazione al fatto che, a L’Aquila, si è ancora ben lontani dall’inizio della ricostruzione.
Purtroppo, a causa dei toni enfatici utilizzati per trattare la questione, si commette il macroscopico errore di confondere la ricostruzione con la costruzione che rappresenta invece il presente.
Mi riferisco alla costruzione dei moduli abitativi provvisori e delle abitazioni afferenti al progetto C.A.S.E. (costruzioni antisismiche, sostenibili, eco-compatibili) agglomerate nelle cosiddette “New Towns” e che, tra l’altro, a distanza di pochi mesi dal loro completamento, già cominciano a richiedere manutenzione.
Il timore più diffuso è che queste New Towns, che poi New Towns non sono poiché si tratta esclusivamente di immensi quartieri dormitorio (qualsivoglia tipo di attività si colloca al di fuori di essi), possano divenire sistemazioni definitive per gli aquilani che potrebbero non vedere mai più le loro case ricostruite.
Il sospetto è legittimo, considerate le lungaggini burocratiche e la scarsità di risorse economiche fin qui evidenziatesi a causa delle quali persino il recupero delle abitazioni lievemente danneggiate procede con incredibile lentezza.
Figuriamoci quelle con gravi danni.
E figuriamoci quelle che si trovano in “zona rossa”, cioè nel centro storico.
A questo punto, la domanda sorge spontanea: costruite le C.A.S.E. e gli altri moduli abitativi provvisori, si ricostruirà davvero L’Aquila?
Siamo perplessi.
Troppa burocrazia, troppa enfasi e pochi soldi.
Per di più, il trionfalismo con il quale si declama il successo dell’ ”operazione L’Aquila” ha, di fatto, rallentato (se non interrotto) la rete di solidarietà che aveva coinvolto il mondo dell’impresa, il sistema bancario, le associazioni di categoria ed i privati cittadini, grazie ai quali molto è stato fatto. Ma molto c’è ancora da fare.
C’è da avviare concretamente la ricostruzione.
C’è da accelerare il ripristino degli edifici danneggiati in periferia e da mettere mano al centro storico rimuovendo con urgenza le macerie che, incredibilmente, a distanza di un anno, sono ancora accatastate su strade e piazze; è questa la premessa per consentire alla città di tornare ad essere al più presto il centro vivo e dinamico che era.
Nessun dubbio sull’abnorme difficoltà di gestire una catastrofe di questa portata e nessuna pretesa da parte degli aquilani, se non quella che venga loro risparmiata la derisoria descrizione di una popolazione soddisfatta e felice perché tutto è stato prontamente risolto.
Almeno si risparmi loro di essere ridotti alla stregua di un mero strumento propagandistico dopo aver subito una tragedia che – considerato che alle 3:32 del 6 aprile qualcuno rideva – forse del tutto imprevedibile non era.
Valeria Tinari