Riceviamo dall’ Onorevole Guido Melis un articolato commento su quanto sta succedendo in Sardegna nel dopoSoru.

sardegnaDimenticare Renato Soru? La Sardegna progressista (e forse non solo quella) vive da quasi un anno la sindrome dolorosa della perdita del padre. Un padre discusso, forse, e persino qualche volta contestato. Ma al tempo stesso molto amato, e sentito da una parte del popolo del centrosinistra come l’espressione più autentica di un’altra Sardegna, autonomista in modo concreto e incisivo (non sterile e inutilmente rivendicativo), moderna, protagonista in prima persona. Soprattutto a schiena dritta.
L’eredità di Soru, caduto – lo si dice qui per inciso – anche per effetto del fuoco amico al quale è stato a lungo sottoposto nel corso della legislatura dai partiti della sua maggioranza – è di quelle ingombranti.

Ne costruiscono parti essenziali la politica di riappropriazione delle risorse fiscali che lo Statuto vigente assegna alla Regione sarda (e che lo Stato aveva a lungo omesso di versare nelle casse sarde), la difesa intransigente delle coste e in generale dei beni naturali ed ambientali, la contestazione attiva dell’occupazione militare dell’isola, la semplificazione amministrativa e istituzionale con la soppressione degli enti regionali inutili e il disboscamento della giungla della formazione professionale, la moralizzazione e ristrutturazione della sanità pubblica, il forte intervento in materia di scuola e in generale di cultura (con un investimento in formazione che non ha l’eguale nei decenni precedenti), l’intera partita dell’urbanistica (in chiave antispeculativa), la modernizzazione degli assetti comunicativi, l’immagine stessa della Sardegna (che con Soru ha avuto una tantum l’onore delle prime pagine nazionali e dei servizi nelle tv che contano).
Non è un patrimonio poco rilevante. Si tratta quindi di decidere cosa ne faremo, di quell’eredità. Se ce la lasceremo alle spalle in nome di più vaste alleanze (come vorrebbe forse chi ha vinto di misura le recenti primarie nel Pd regionale), o se ne facciamo viceversa la base per riprendere il discorso, e per portarlo avanti con vecchie e nuove aggregazioni.
Il riformismo di Soru ha avuto due segni, apparentemente contrastanti tra loro. Ha goduto, specie in certi momenti della legislatura, di un consenso visibile, di piazza, caldo e entusiasta. Ma al tempo stesso si è alienato una ad una tutte le roccaforti del potere che contano, tutte le corporazioni, gli interessi forti e quelli meno forti. Ha avuto contro – tutti insieme – i sindaci dei comuni costieri espropriati dell’uso discrezionale degli strumenti urbanistici, la piccola edilizia implicata nelle costruzioni selvagge, i baroni della medicina espropriati dalla riforma sanitaria, gli architetti sardi seccati del ricorso nelle gare ai grandi nomi dell’élite professionale internazionale, le migliaia di clientes gravitanti sulla torta della formazione professionale, i maddalenini dispiaciuti di perdere la rendita di posizione rappresentata dai militari americani di stanza nella base, gli agricoltori a torto o a ragione convinti di essere stati abbandonati. E poi l’indotto della politica isolana, quel vasto mondo nascosto nel quale candidature e voti si scambiano con favori e prebende, tagliato fuori dalla vena moralizzatrice del leader. E i sindacati, persino, spiazzati dalle politiche di vertice della Regione, privati del loro potere di contrattazione.
Ecco, le politiche di vertice: e dunque l’elitismo di Soru, il suo modo personalistico di guidare la Giunta, il suo cattivo carattere (anche questo si è detto, in un continuo tam tam delegittimante proveniente spesso da ambienti che avrebbero dovuto essergli amici). Insomma, un riformismo di minoranza, d’avanguardia, in splendido isolamento.
In realtà, se qualche volta così è stato (o è sembrato essere) la colpa più che di Soru sta nei partiti della sua coalizione. Che avrebbero dovuto – loro sì – costruire consenso, creare un’opinione stabile pro-riforme, spiegare ai ceti temporaneamente colpiti (non esiste riformismo che non colpisca qualcuno) i vantaggi che sarebbero derivati dalle razionalizzazioni. Chiusi in Consiglio regionale e legati a prospettive miopi di bassa lottizzazione, i partiti di centrosinistra hanno viceversa per lo più scavato la propria fossa.
Questo per il passato. Ma il punto, ora, è un altro: quelle politiche, quella spinta riformista, sono ancora valide? E, soprattutto, possono riprendere fiato ed essere riproposte, sia pure sotto altre forme e in tempi diversi?
La risposta a questa domanda non può che essere affermativa. Sì, sono validissime. E vanno riprese con coraggio e al tempo stesso con capacità di innovarne modalità e linguaggio.
Validissime perché la Sardegna non può più andare a traino di politichette rivendicative come avveniva nel passato pre-Soru. Non può più affidarsi (come si è illusa di fare nel disastroso esordio della giunta Cappellacci) alla mediazione di un ceto politico prono ai desideri del Governo centrale, nell’illusione di riceverne in cambio chissà quali benefici. Se questa è stata la scelta sventurata degli elettori che in febbraio hanno votato per il centro-destra, è già fallita miseramente: lo dicono la crisi della chimica di Porto Torres (per non parlare dell’intera filiera sarda), la chiusura dell’Euroallumina, la soppressione del G8 alla Maddalena e di tutte le opere programmate (compresa la strada della morte, la Sassari-Olbia), il Piano casa della Giunta che cementifica di nuovo l’isola e tutte le scelte lottizzatorie in atto nella sanità e negli enti regionali. A distanza di pochi mesi persino un’autorevole personalità della maggioranza come il senatore Beppe Pisanu dice senza peli sulla lingua che Cappellacci è inadeguato, che ci vuol altro.
Validissima, la ricetta Soru, perché corrisponde a un’idea di Sardegna più che mai attuale. Il mondo che verrà, quando questa immensa crisi finanziaria e produttiva su scala mondiale sarà passata, potrebbe essere molto diverso da quello che abbiamo alle spalle. La scena internazionale non sarà più monopolizzata da un solo grande paese, ma vi giostreranno nuovi protagonisti emergenti: la Cina, che cresce ad un ritmo che è il triplo degli altri, l’India, forse il Brasile, certamente la Corea del Sud. Il Mediterraneo sarà sempre più attraversato dal grande flusso migratorio che già lo caratterizza. Continueranno ad arrivare gli immigrati. La popolazione demograficamente in affanno della vecchia Italia – qualunque muro pretendano di erigere quelli della Lega – è destinata a innovarsi con forze fresche, inclusioni comunitarie (già succede coi romeni) ed extracomunitarie. Il Nord Africa, la stessa Africa sahariana busseranno alle nostre porte e non potremo ignorarlo. E’ troppo avveniristico pensare che la Sardegna, ponte ideale tra i due mondi, potrebbe assumere in tutto ciò una sua funzione specifica? Diventare il traghetto dello sviluppo che verrà? E’ troppo ottimistico supporre che, invece di subire il processo in atto, ne potrebbe essere parte integrante, e non solo come terra di accoglienza?
Viviamo l’epoca delle grandi reti, un’età della globalizzazione nella quale non contano tanto le riserve di risorse materiali quanto l’accumulazione in termini di intelligenza, di ricerca, di innovazione, di fantasia creativa. E se puntassimo lì, su quel terreno inedito, tutte le nostre carte? Se rovesciassimo le nostre debolezze storiche (a cominciare dall’insularità) in punti di forza? Se concentrassimo le risorse finanziarie pubbliche un un Piano di Rinascita delle intelligenze, puntando sulla rivitalizzazione dei due atenei isolani e sul potenziamento o nuovo radicamento di centri di ricerca di eccellenza?
Si sente più che mai il bisogno di una riflessione sui compiti della politica in Sardegna (parlo naturalmente della politica riformista) e sugli orizzonti dei prossimi anni.
Partiamo da Soru, naturalmente. Mettiamo a frutto la sua lezione, che è stata quella di non temere di pensare e di progettare in grande. E aggiungiamoci pure tutta la tattica che pensiamo necessaria, tutta la politica delle alleanze che riteniamo indispensabile. Lavoriamo a ricostruire un blocco non solo di sigle di partito (che non resisterebbe alle prime contraddizioni) ma di pezzi vivi e vitali della società sarda.
Si vince non aggregando alla rinfusa chi sta contro la destra, magari in base a qualche promessa di spartizione futura, ma mettendo insieme razionalmente gli interessi sociali progressisti, le forse vive della Sardegna del futuro. Consorziandoli e cementandoli intorno a un progetto alto e condiviso di trasformazione della realtà.
Guido Melis

Nato a Sassari l’8 novembre 1949. Oggi Deputato del PD nell’attuale Legislatura. E’ anche Professore Ordinario di Storia delle Istituzioni Politiche nell’Università di Roma ‘La Sapienza’. Ha scritto tra l’altro una Storia dell’Amministrazione Italiana 1861-1993 (Il Mulino, 1996), nonchè vari volumi e saggi sulla Storia delle Istituzioni, sulla Storia della Legislazione, sulla Storia dei Partiti e Movimenti Politici dell’ Otto-Novecento.
E’ attualmente Presidente della Società per gli Studi di Storia delle Istituzioni e dirige la rivista ‘Le Carte e la Storia’.