Il nostro amico e giornalista Salvatore Lo Leggio ha scritto queste ‘Riflessioni sul processo Spaccino‘ che pubblichiamo.
L’evento su cui ragiono non è più recentissimo: sono passate due settimane e nel sistema mediatico può essere una eternità. Vorrei tuttavia proporre qualche riflessione e, più ancora, qualche interrogativo su uno dei casi giudiziari che nella nostra Perugia hanno attirato l’attenzione dei cronisti, le telecamere, i flash dei fotografi: il processo a Roberto Spaccino, incriminato per l’assassinio della moglie Barbara Cicioni all’ottavo mese di gravidanza, avvenuto nella vicina Marsciano. Molti e convergenti indizi hanno portato prima i magistrati ad accusarlo, poi i giudici a condannarlo. L’uomo, peraltro, non dev’essere uno stinco di santo: per sua stessa ammissione maltrattava e picchiava la consorte, anche per motivi assai futili.
Il giorno della sentenza, il 16 maggio, davanti al Tribunale un “presidio” di associazioni femminili e femministe, alcune delle quali si erano costituite parte civile, ha accolto con esultanza la notizia della condanna. E’ cosa comprensibile e condivisibile che il femminismo, perugino e non, vedesse nel delitto un emblema della violenza sulle donne che il sistema informativo tende ad occultare quotidiana e “banale”, di quella che si svolge dentro le case e le famiglie. Così è degno e giusto “usare” il processo non solo per solidarizzare con la vittima ma anche per denunciare tutto ciò. La festa però non va bene. C’è chi ha cercato di ridimensionare il fatto: erano poche e l’esultanza è durata poco. Sarà, ma la cosa resta sgradevole e per certi versi sorprendente. Intanto dovrebbe indurre alla prudenza il fatto che il processo è e resta un processo indiziario e come tale presenta una possibilità, per quanto minima, di errore. Ma è anche l’ergastolo in quanto tale che non dovrebbe indurre all’esultanza. Erano state proprio le femministe ad insegnarci che la società segnata dalle discriminazioni di genere, anche nelle forme del diritto, tende a giustificare e a codificare la violenza, la guerra e la vendetta. Avevano proposto un’altra cultura, che orgogliosamente e acutamente definivano femminile, fondata sull’apertura all’altro, sull’accoglienza, sull’amorevolezza. Non mi pare che la pena dell’ergastolo, con la sua irredimibilità e irrimediabilità si leghi bene a questa visione. Non è un caso che siano proprio certi “fallocrati” forcaioli, i La Russa, i Gasparri e simili, a proporre con occhio livido di “buttare via la chiave” nei talk show televisivi.
Nella vicenda c’è un altro paradosso. Il reo, che peraltro non ha mai cessato di proclamarsi innocente, alla notizia della condanna ha fatto sapere che per protesta avrebbe messo in atto uno sciopero della fame. Non pensiamo che il detenuto sappia di Capitini e Gandhi e sospettiamo che l’iniziativa non sia coerente con le loro teorie: eppure è curioso notare come perfino in uno Spaccino fiorisca il seme della non-violenza, sia pure soltanto proclamata.
C’è una profetica poesia di Montale, credo del 71, dal titolo Il frullato, che così tra l’altro recita: “Ora c’è stata una decozione / di tutto in tutti e ognuno si domanda /se il frullino ch’è in opera nei crani / stia montando sozzura o zabaione”. Il curioso scambio delle parti tra Spaccino e le femministe ce l’ha richiamato alla memoria. Non sapremmo dire che cosa tutto ciò significhi, ma ci pare che, per la nostra convivenza urbana e umana, non sarebbe male nella babele mediatica recuperare il senso delle “idee chiare e distinte”.
Salvatore Lo Leggio